“Condividere il buon fare” Interessante articolo di Paolo Marta!

Condividere il buon fare – di Paolo Marta

 

Pensare che una società sportiva si esprima solo attraverso il risultato ottenuto sul campo da gioco è come affermare che un genitore si possa giudicare dal benessere che garantisce alla propria famiglia.

Se così fosse, avrebbe senso solo la vittoria.  Alla faccia del senso più profondo della parola partecipazione. E alla faccia del sapore, dolce e intenso, che ti rimane in bocca tutte le volte che puoi dire, a testa alta, di averci provato. Anche dopo aver perso.

Quando cominciai a giocare a rugby ero ancora un bambino. Ricordo che ebbi la sensazione di entrare in una grande famiglia. Franco Casellato fu il mio primo papà. Affettuoso e ruvido allo stesso tempo. Mi chiedeva semplicemente, con un’insistenza a tratti insopportabile ed una coerenza spietata, di dare il massimo delle mie possibilità. Sempre. Dentro e fuori dal campo. Giudicandomi sull’impegno, mai sul risultato. Ed io, giorno dopo giorno, riconobbi la strada che aveva tracciato davanti a me e divenni un rugbista.

Oggi non gioco più, non alleno, non sono un dirigente. Eppure rimango un rugbista. Perché quello che impari su un campo da rugby o seduto in panchina agitato nell’attesa che arrivi il tuo turno, o nello spogliatoio, in corriera, nella club house, è come un tatuaggio inciso nell’anima. Stesso prezzo nel riceverlo, stessa fierezza nel mostrarlo. E poi è per sempre. Si, proprio come un diamante. Ed è per questo che i rugbisti si riconoscono tra loro: gli basta poco per brillare.

Mi sono illuso che questo privilegio si potesse trasmettere ai figli un po’ a parole e un po’ attraverso il DNA, come per magia.

Ovviamente mi sbagliavo. Ma per capirlo ho dovuto prima prendere un treno in faccia.

Ci ha pensato mio figlio Davide quando un giorno, alla richiesta di smettere di giocare con la playstation, mi rispose male, come se io fossi il suo nemico. Come se il mio invito a fare altro, di più reale e di più vicino alla mia visione della vita, fosse un dispetto.

Mi arrabbiai, ma la colpa, lo capii subito, era mia perché la playstation aveva riempito il vuoto che gli avevo concesso. Anche per comodità e pigrizia. Disteso sul divano con il telecomando in mano, appesantito da una lunga giornata di lavoro e da mille pensieri, occupato più a giustificare il mio diritto ad un attimo di tranquillità che a guardarmi intorno, avevo dimenticato che un rugbista, prima di tutto, condivide.

La risposta di Davide mi ricordò il tatuaggio.

Da quel momento, giorno dopo giorno, affrontando la fatica di chi riprende a fare una cosa per troppo tempo dimenticata, ho riscoperto il sapore della mia giovinezza e la freschezza della fantasia che traboccava in me. Quella buona, che mi legava alla realtà, che mi spingeva ad andare oltre, a sperare, a sognare, a provare, a soffrire, a non mollare mai, a percorrere la strada per diventare una persona migliore. O almeno, provarci.

Ho condiviso questa energia silenziosa, eppure dirompente, con i miei figli. Con loro oggi mi sporco le mani, le scarpe, i pantaloni, la maglietta. Con loro mi diverto, imparo, rifletto. A loro offro una spalla dove piangere ed una mano per rialzarsi.

Alle volte, non lo nascondo, la stanchezza si fa avanti, cerca di prendere il sopravvento, di convincermi che, anche se per una volta lascio perdere, non casca il mondo. Esattamente quello che accadeva quando dovevo andare ad allenarmi e “non avevo voglia”. In fondo non è cambiato nulla. Guardo negli occhi i miei figli e il desiderio e il dovere di condividere mi spinge avanti. Sulla strada del (buon) fare. Quella a cui Franco teneva tanto. E così, anche se non gioco più a rugby, mi sento di nuovo un rugbista.

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