La cultura del Fare 2. Educatori, bambini… e mio nonno

Io credo che uno degli errori più frequenti e gravi che può commettere un educatore, sia quello di cadere nella tentazione di dire ai propri giocatori quello che devono fare.

Ad esempio, c’è chi pretende che un bambino sia in grado di passare la palla ad un proprio compagno decidendo correttamente quando farlo (scelta e timing), solo perché glielo ha spiegato a parole e magari fatto provare un paio di volte. E quando un bambino sbaglia (perché passa troppo presto, o male, o non passa), si arrabbia e pensa di riuscire a risolvere il problema, tout court, attraverso un’ulteriore spiegazione verbale:

Ti ho detto che devi fare così

perché, almeno ai suoi occhi (di spettatore) è evidente. E se il bambino sbaglia ancora, la colpa è ovviamente sua perché “proprio non capisce”.

Non si rende conto che quello che gli sta chiedendo è un atto complesso (anche per un adulto), che non può essere insegnato (o meglio: imposto, ordinato) verbalmente ed imparato a memoria, come fosse uno schema, fosse solo perché il nostro sport (per fortuna!) propone situazioni sempre diverse.

Non c’è nulla da fare: il buon fare si apprende con il fare bene.

Questo vale sopratutto per i bambini che, ricordiamolo, si chiamano così (bambini non piccoli adulti) in quanto hanno delle capacità cognitive e fisiche in crescita, diverse da quelle di un adulto.

I cuccioli hanno bisogno di provare o, se volete, di assaggiare la vita. Una volta accadeva, sopratutto nei campetti e negli oratori, in modo libero e anarchico. Se a dei bambini davi una palla non si fermavano a parlare di quello che avrebbero fatto. La usavano. E anche se i tempi sono cambiati, ciò accade ancora. E’ nella loro natura.

Negli ultimi anni, per vari motivi e sempre di più, affidiamo i nostri cuccioli alle società sportive dove l’attività viene proposta sotto la guida di uno o più educatori. La loro presenza può essere senz’altro molto utile sopratutto quando tracciano il percorso più corretto da seguire. Dovrebbero rappresentare l’enzima che trasforma il gioco anarchico in gioco guidato e mirato.

Gioco quindi, non parole, caratterizzato dalla proposta di situazioni (di difficoltà e complessità progressivamente crescenti) nelle quali il bambino possa provare in prima persona e concretamente a risolvere il compito assegnato. Provare, sbagliare, riprovare… Non solo, o soprattutto, ascoltare. Così facendo il bambino impara (ognuno con i suoi tempi) a vedere la situazione che deve affrontare (dove sono gli avversari? E i compagni? E quanti sono? E dov’è la meta? Ecc.), a comprenderla con l’elaborazione e la formulazione di una risposta e quindi a metterla in pratica attraverso il proprio fare. L’esito dell’azione e l’eventuale rinforzo dell’educatore gli faranno capire la bontà o meno del suo agire.

Ed è ovvio che la sua crescita non potrà che essere legata alla quantità e alla qualità delle esperienze che avrà la possibilità di fare. Non parole, ma esperienze.

L’educatore ha un compito molto difficile che passa innanzitutto attraverso la conoscenza profonda e continuamente aggiornata dei propri giocatori, delle loro capacità, della loro progressione. Questa conoscenza lo mette nella condizione non solo di variare (anche nel corso della stessa seduta), ma anche di tarare, in modo fine, le proposte e quindi il percorso. Una calibratura che varia ovviamente da gruppo a gruppo, che può comprendere anche dei “passi indietro” (per ritornare a proposte meno complesse seguendo l’evoluzione o l’involuzione dei bambini) e che, anche all’interno dello stesso gruppo, necessità di attente compensazioni. Perché non solo i bambini sono differenti dagli adulti, ma sono differenti anche tra loro. E nessuno deve essere lasciato indietro.

Il clima poi deve essere positivo e stimolante. Dobbiamo insegnare ai nostri bambini a divertirsi nel fare, a provare quell’intima soddisfazione che solo le esperienze concrete che ci fanno sentire protagonisti del nostro agire ci può regalare.

Ci vuole pazienza. E’ senz’altro più facile ottenere vittorie, prediligendo i bambini più forti e imponendo loro ciò che devono fare. Ma così li si fa crescere poco. Anche come giocatori.

Ci vuole impegno e fantasia.

Ci vuole forza per non cadere nella tentazione di rubare la scena ai propri giocatori trasformandoli in un mezzo per raggiungere i propri personali obiettivi.

Ci vuole maturità per tarare vittoria e sconfitta non sul risultato, ma sul livello di impegno dimostrato.

Infine ci vuole amore per quello che facciamo e, soprattutto, per i nostri giocatori. Altrimenti donare loro qualcosa sarebbe impossibile.

Conclusione

Se mio nonno mi avesse guidato nel capire il perché ciò che gli proponevo non andava bene, e lo avesse fatto con pazienza, calma e gradualità, senza suggerirmi le risposte, ma piuttosto proponendomi un percorso per raggiungerle, forse mi avrebbe aiutato a crescere.

Se invece di strapparmi dalle mani i pennelli quando non riuscivo a fare ciò che voleva, avesse preso un pezzo di carta e mi avesse fatto vedere come dovevo fare, magari partendo dalle cose più semplici e (per lui) banali e poi mi avesse messo nelle condizioni di esercitarmi, di provare, di sbagliare senza paura, correggendomi quando necessario, ma senza regalarmi la soluzione, forse io avrei imparato a colorare e mi sarei divertito e lui non avrebbe più dovuto sostituirsi a me per coltivare l’illusione di essere un buon maestro.

Forse ti potrebbe interessare :