La mia è una famiglia credente. Da piccolo i miei genitori mi portavano ogni domenica in chiesa, il sabato mi mandavano a catechismo e ogni tanto a servire messa. Sono cresciuto respirando l’odore della chiesa, osservandone i chiaroscuri, avvertendone il peso dei silenzi. Ho imparato a rispettarne le regole, anche quelle non scritte.
Ma il succo me lo ha insegnato mio padre, uomo profondamente credente, non a parole, ma nei fatti.
Il mio primo maestro di rugby e’ stato Franco Casellato. Sono stato fortunato.
Ha cercato di insegnarmi i principi del gioco, ma sopratutto l’anima. Lui ne era lo specchio. Fisico tarchiato, volto solcato dalle linee della fatica e della dedizione. Sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via. E anche se in campo scendevamo noi, una parte di lui ci accompagnava sempre. Anche oggi.
Franco mi ha insegnato, fin da piccolo, come ci si comporta in un campo di rugby e che le linee del campo coincidono con quelle della vita.
Quando mi avvicino alla soglia di una chiesa ne percepisco subito il pathos. Ancor prima di entravi so esattamente come mi comporterò. Mi farò il segno della croce e, anche se non troverò cartelli che vietino di farlo, non parlerò ad alta voce. Non riderò in modo chiassoso anche se nessuno mi ricorderà che non si può. Non mi metterò a correre e a saltare, ma mi muoverò in modo lento e composto.
E’ una questione di rispetto.
Nello spogliatoio, prima di una partita, mentre la pelle si impregnava di olio canforato e diventava ruvida per la tensione, me ne stavo in silenzio, al mio posto, perché dovevo concentrarmi e permettere agli altri di fare altrettanto. Sentivo il dovere di essere un esempio. Come tutti. In campo entravo con “il muso duro e la bareta fracada” per far capire (a compagni ed avversari) che non avrei fatto sconti a nessuno. E alla fine della partita seguivo sempre lo stesso rituale per cui se vincente mi fermavo, assieme ai miei compagni, ad applaudire l’avversario prima della sua uscita e se perdente ripetevo la stessa cosa per i vincenti.
Sempre per una questione di rispetto.
Il rispetto ha un prezzo.
Rispettare un’idea, un principio. Rispettare le persone. Rispettare il confronto.
Non è gratis e anche per questo ha un valore ed è capace di unire le persone.
Ho sempre pensato al rugby come ad un filo che unisce. Giocatori allenatori, dirigenti, accompagnatori, ex di ogni tipo, spettatori, simpatizzanti. Tutti uniti dall’impegno che ti impone. Da regole che non ti lasciano scampo. Impossibile imbrogliarlo. Sia che tu scenda in campo sia che tu ne faccia parte in modo periferico. Ti impone poche cose, ma non è disponibile a contrattarle. O ti impegni o sei un “cazzone”. O sei leale o sei disonesto. O sei coraggioso o sei codardo. Le vie di mezzo non esistono. E non puoi esserci solo quando le cose vanno bene: o ci sei sempre o non fai parte del gruppo.
E se quel filo ti ha scelto, sarà per sempre. Anche nella vita.
Se sei un buon rugbista, nella vita rimani tale.
Mio padre mi ha insegnato che andare in chiesa non è sufficiente per essere un credente. Ci vuole altro. Non basta pregare, bisogna anche e soprattutto fare. Oltre a rispettare le regole bisogna viverne i contenuti. Sei sei un buon cristiano non lo sei solo in chiesa. Non puoi tornare a casa e non considerare le persone che ti sono antipatiche o chiudere la porta in faccia a chi ha bisogno. Il tuo Dio ti osserva sempre e forse, dovendo scegliere, ad una preghiera preferisce una buona azione.
Sei sei un vero credente nella vita non puoi avere nemici. Avversari si, da affrontare con impegno e lealtà, con rispetto e con la disponibilità di lottare al loro fianco per far si che possano esprimere la loro opinione. Ma nemici no.
Proprio come nel rugby.
Per questo motivo, Franco ci teneva che alla fine della partita rispettassimo il rituale del saluto.
Forse più della vittoria.
Quando giocavo nella Benetton i miei avversari erano quelli che giocavano nella Tarvisium. Vivevamo lo stesso sport in parrocchie completamente diverse. Ma gli avversari che ho rispettato di più sono stati proprio loro. E non è un caso che tra loro abbia trovato alcune tra le persone che hanno segnato la mia esistenza. E non è un caso che, una volta terminato di giocare nella Benetton ed appese le scarpe al muro, abbia deciso di staccare il chiodo e di calzarle nuovamente proprio per giocare nella Tarvisium.
Parrocchia diversa, ma stessa religione, stessi principi.
Se sei un rugbista lo sei ovunque.
Ho cominciato ad allontanarmi dalla chiesa quando ho scoperto che molte delle persone che la conducevano e avrebbero dovuto essere un esempio per gli altri erano invece degli approfittatori. Predicavano la carità, ma erano egoisti. Invitavano alla povertà, ma vivevano nella opulenza.
Ciò che doveva unire, lacerava.
Mi sono allontanato dal mondo del rugby quando mi sono reso conto che molte persone prendevano decisioni solo per soddisfare i propri interessi o, talvolta, per non permettere ad altre di raggiungere i propri obbiettivi.
Ho visto rugbisti trattare altri rugbisti come nemici e non come avversari e, fuori e dentro al campo, sempre meno applausi sinceri agli sconfitti e ai vincitori.
Probabilmente sto invecchiando, ma onestamente non credo di aver superato quella linea sottile che divide l’amore nei confronti dell’essenza di un credo, dalla rigidità senile.
Non vado più in chiesa la domenica.
Non vado quasi più a vedere le partite di rugby.
Ma quando incontro un rugbista vero, anche se non lo conosco, molto spesso lo riconosco.
Forse perché continuiamo ad essere tutti fratelli.
Alla faccia di chi non riesce o non lo vuole capire.
Meraviglioso!
Grazie Sergio per questa riflessione così attuale, toccante e ben composta.
Purtroppo, credo che ti seguirò: per il momento continuo ad andare in chiesa ma sto iniziando a disinteressarmi al rugby……….
Ancora grazie!
enrica
Ciao Paolo, ciao Sergio…. ho avuto l’onore di giocare con tutti e vi ritengo delle belle persone dentro e fuori il campo, sono in pieno accordo con quello che Paolo ha scritto ma,
siccome non possiamo fare nulla per cambiare e migliorare la chiesa, perché non cerchiamo di reintrodurre i vecchi valori nel rugby odierno e nelle nuove generazione?
Qui possiamo fare qualcosa.
Ciao Elio
Ciao Elio, grazie dei complimenti. .
Ritengo che tu abbia ragione e a tal proposito ti dico che stiamo facendo qualcosa per trasmettere i Principi che Paolo ha ben descritto nel suo articolo.
Io sono direttore tecnico di Akka , una società che collabora con Pierre Villepreux che tu ben conosci. FACCIAMO formazione in tutta Italia e non solo..però siamo ostacolato, anzi direi peggio , ignorati dalla Fir e dal comitato per il solito problema Italico, la paura del confronto!!
La cosa che mi fa piacere e mi sprona ad andare avanti e che hai nostri stage ci sono dalle 80 alle 100 persone (allenatori e giocatori).
Akka non è schierata, non è a scopo di lucro !
Un grande abbraccio caro amico mio!
Ps: fammi avere il tuo nr. Di cellulare che se passo dalle tue parti ti chiamo.
Sergio
Bravo Paolo!
La tua visione romantica purtroppo è cosa di altri tempi, quelli che abbiamo vissuto insieme. Il rugby ora è qualcosa di molto diverso, denaro e grossi interessi hanno “inquinato” molti di quei valori che tu ben descrivi nel tuo articolo. Cosa fare? non lo saprei, intanto apprezzo il vostro lavoro che penso debba essere sostenuto con forza! Un abbraccio
Bellissimo pensiero di Paolo Marta, mi interrogo spessissimo su questi temi.
Personalmente però non credo che il rugby sia delle persone che vivono l’inimicizia, ne che la chiesa sia degli approfittatori.
Sono nostri quanto loro, infatti mi ostino a vivere fede e sport come li vedo io, proprio perché la fede e la speranza vanno a braccetto e non ho alcuna intenzione di piegarmi a chi conduce, in modo discutibile, le istituzioni in cui credo.
La fede richiede sacrificio, non si può mollare nemmeno in fronte alle circostanze avverse. Il rugby (quello che piace a me) insegna a non arrendersi ed insegna anche che ci sarà un ritorno per tutti.
Vivo lo sport che amo come voglio io e se qualcuno si mette di traverso, come è capitato e capita, aspetto che sia causa del suo mal, ed attendo il girone di ritorno.
Magari mi stancherò, ma oggi la vedo così.
Credo (a ocio e croxe) che anche Paolo Marta, scrivendo queste righe, dimostri di amare ancora incondizionatamente questo sport.
p.s. Ho avuto Paolo come istruttore ai corsi allenatori… un grande!
Gentile Paolo, un saggio meraviglioso e profondo, lo stampero’ e lo conservero’. Grazie.
Filippo
Sergio, Paolo, anzitutto grazie, le parole che sto leggendo mi portano a vivere ricordi ormai riposti, ma tornano talmente vivi che mi si accappona la pelle e le emozioni rivivono come se fosse stato solo ieri che il rugby era parte integrante della mia vita. Oggi, grazie a voi mi rendo conto che io non sono più parte del rugby ma il rugby e’ sicuramente parte di me, per quello che mi ha lasciato sotto la pelle e dentro l’anima.
Per ciò grazie ancora per quello che mi avete dato quando abbiamo giocato assieme e per quello che mi state dando oggi con i vostri scritti.
Condivido quai tutto. Non condivido la parte finale. Anche io ho rinunciato ad andare in chiesa, ma ancora non riesco a rinunciare al rugby nonostante oltre a darmi tanto mi ha anche dato qualche delusione. Ma e’ la vita. Ed il rugby e’ la vita. Per cui sono dell’idea di cercare di non far morire i valori con cui siamo cresciuti e di cercare di invertire la rotta.
Sergio, grazie per aver pubblicato quanto ha scritto Paolo. Tocca corde a cui non puoi evitare di vibrare…Buon Natale a tutti i fratelli Rugbysti. Marco S.
Ciao Marco, buone feste!
Parole Sante … parole. Difficili da far capire ai nostri giovani di oggi , ho giocato a Rugby , per poco ma ho giocato , poi purtroppo. Mi sono , anzi mi Hanno rotto in maniera pesante … tibia perone in allenamento na ci stava . Ricordo il campo Milani. D’inverno. Doccia con le finestre senza vetri , ma tutto era bello naturale semplice , quella sera che mi sono spaccato , non c’era namma è papà , io. E Bepi liotto. In vespa. Al pronto soccorso …. erano altri tempi
Erano altri tempi, ma tu hai avuto la fortuna di viverli caro Mauro! Un grande abbraccio